Conférences

Che cos’è l’atto di creazione?
Cours du 18/03/1987

Vorrei anch’io porre delle domande. E ponendole a voi, porle a me stesso. Qualcosa… qualcosa del tipo: che cosa fate voi, di preciso, quando fate del cinema? Ed io, che cosa metto in atto precisamente quando faccio (o quando spero di fare) della filosofia? Abbiamo davvero qualcosa da dirci, a tale proposito? Certo, va male dalle vostre parti; ma va piuttosto male anche dalle mie! [risata del pubblico] Ma non è solo questo che ci possiamo dire.
O meglio, io porrei la questione in maniera diversa: cosa significa avere un’idea nel cinema? Se si fa del cinema, o se si vuol fare del cinema, cosa significa avere un’idea, nel momento in cui diciamo: “ecco, ho un’idea”?
Perché da un lato tutti sanno che avere un’idea è un evento raro, succede di rado. Avere un’idea è una specie di festa, ma non succede spesso. D’altra parte, avere un’idea non è qualcosa di generico, non si ha un’idea in generale. Ogni idea è già votata, proprio come chi la partorisce, a questo o quel dominio. Voglio dire che un’idea è talvolta un’idea in pittura, talvolta un’idea nel romanzo, talvolta un’idea in filosofia, talvolta un’idea scientifica. Ed evidentemente non è la stessa persona che può assommare in sé tutto questo. Se preferite, le idee bisogna trattarle come delle specie di potenziali; le idee sono dei potenziali, ma dei potenziali già compromessi con questo o quel sistema espressivo ed inseparabili da esso, tanto che non posso mai dire: “ho un’idea in generale”. In funzione delle tecniche che padroneggio, io posso avere un’idea nell’ambito di un dominio: un’idea nel cinema, o di un altro dominio: un’idea in filosofia.
Cosa significa avere un’idea in un certo campo? Ritornerei al fatto che io faccio della filosofia e voi fate del cinema. Allora sarebbe troppo facile dire “beh, sì, tutti sanno che la filosofia si presta alla riflessione su qualsiasi cosa; perché allora non potrebbe riflettere sul cinema”? Ora, questa è un’idea indegna. La filosofia non è fatta per riflettere su qualsiasi cosa; e non è fatta nemmeno per riflettere su cose diverse da quelle qualsiasi.
Voglio dire che trattando la filosofia come una potenza di riflessione su, si ha l’aria di concederle molto, ma di fatto la si spoglia di tutto. Perché nessuno ha bisogno della filosofia per riflettere. Con questo voglio dire che i soli capaci effettivamente di riflettere sul cinema sono i cineasti, o i critici cinematografici, o gli amanti del cinema. Nessuno di loro ha bisogno della filosofia per riflettere sul cinema. L’idea che i matematici abbiano bisogno della filosofia per riflettere sulle discipline matematiche è un’idea comica. Se la filosofia dovesse riflettere su qualche cosa, allora non avrebbe alcun bisogno di esistere. Se la filosofia esiste è perché ha il suo proprio contenuto. Se ci chiediamo: “qual è il contenuto della filosofia”? è affatto semplice: la filosofia è una disciplina creatrice, tanto ricca di invenzioni quanto le altre discipline. La filosofia è una disciplina che consiste nel creare o inventare concetti. E i concetti non esistono belli e fatti, non si trovano in una specie di cielo dal quale attendono che un filosofo li colga. I concetti bisogna fabbricarli.
Certo, non si possono fabbricare così; non ci si può dire, un giorno, “ecco, costruirò questo concetto o inventerò quell’altro”. Né più né meno di un pittore che dica “ecco, farò un quadro così”. Bisogna che sorga una necessità. Ma, tanto in filosofia come altrove (anche il cineasta non può dire: “Ecco, farò questo film”) bisogna che sorga una necessità, altrimenti non c’è nulla da fare. Rimane il fatto che questa necessità è qualcosa di estremamente complesso e, se si presenta, fa sì che io sappia almeno di cosa si occupa un filosofo e, soprattutto, ciò di cui non si occupa affatto, cioè di riflettere, nemmeno sul cinema: egli si propone di inventare, di creare concetti. Se dico di fare della filosofia, ciò significa che cerco di inventare concetti. Non che cerchi di riflettere su qualcosa d’altro. Se dico a voi, che fate del cinema, “cos’è ciò che fate”? Ne do ora una definizione un po’ puerile, vi prego di accordarmela, anche se ce ne sono sicuramente di migliori: ecco, direi che ciò che voi inventate non sono concetti (che non sono affar vostro); ciò che inventate è piuttosto qualcosa che potremmo chiamare dei blocchi di movimento-durata. Se si fabbricano dei blocchi di movimento-durata, forse, ecco che si sta facendo del cinema. Osservate che non si tratta affatto di invocare una storia o di negarla. Tutto ha una storia. Anche la filosofia racconta delle storie, delle storie con dei concetti. Supponiamo ora che il cinema racconti delle storie attraverso dei blocchi di movimento-durata. Posso dire allora che ciò che la pittura inventa è un tutt’altro tipo di blocchi: non si tratta né di blocchi di concetti, né di blocchi di movimento-durata, ma possiamo supporre che siano del blocchi di linee-colore. La musica inventa ancora un altro tipo di blocco molto, molto particolare…
Ma in mezzo a tutto questo, sapete, la scienza non è meno creatrice; non vedo un così gran termine d’opposizione tra le scienze e le arti. Se chiedo ad uno scienziato cos’è ciò che fa, anche lì egli inventa, non scopre. Non che la scoperta non esista, ma non è attraverso di essa che si definisce un’attualità scientifica in quanto tale. Dunque, per restare nell’ambito di definizioni altrettanto sommarie come quelle dalle quali sono partito, direi che uno scienziato è qualcuno che inventa o che crea funzioni. Ed è il solo a farlo. Non crea concetti; uno scienziato non ha nulla a che fare, in quanto scienziato, con dei concetti. È proprio per questo, fortunatamente, che c’è la filosofia. In compenso c’è qualcosa che uno scienziato e solo uno scienziato sa fare: inventare e creare funzioni. Ma che cos’è una funzione? Potremmo definirla semplicemente così, come ho cercato di farlo finora, in modo da rimanere ad un livello rudimentale. Non certo perché penso che voi non capireste, ma perché sono io ad aver superato il limite… E poi, non c’è abbastanza spazio per ciò che vi vorrei dire oggi, non c’è modo di andare oltre. Punterò all’essenziale: che cos’è una funzione? Vi è funzione dal momento in cui c’è una corrispondenza regolata di almeno due insiemi. La nozione di base della scienza (e non da ieri ma da almeno tre secoli) è quella di insieme ed un insieme è completamente diverso da un concetto, non ha nulla a che fare con un concetto. E dal momento in cui mettete in correlazione regolata degli insiemi voi ottenete delle funzioni e potete dire: sto facendo della scienza. E se chiunque può parlare a chiunque, se un cineasta può parlare ad un uomo di scienza, se un uomo di scienza può avere qualcosa da dire ad un filosofo e viceversa, ciò avviene nella misura in cui e in funzione dell’attività creatrice propria a ciascuno. Non che vi sia un luogo per parlare della creazione in generale (la creazione è qualcosa di piuttosto solitario) ma è in nome della mia creazione che ho qualcosa da dire a qualcuno. E se allineassi tutte queste discipline che si definiscono attraverso la loro attività creatrice, se le allineassi, direi piuttosto che c’è un limite comune a tutte; e questo limite che è comune a tutte le serie, a tutte queste serie di invenzioni – invenzioni di funzioni, invenzioni di blocchi di durata-movimento, invenzioni di concetti, ecc. – che cos'è? È lo spazio-tempo. Anche se tutte le discipline comunicano tra loro, è al livello di ciò che non si sprigiona mai per se stesso ma che è come imprigionato in ogni disciplina creatrice, che avviene la costituzione di uno spazio-tempo.

Bresson

Bresson, beh, è cosa nota: raramente si incontrano spazi interi nei film di Bresson.
Sono degli spazi che potremmo definire “scollegati”. Vale a dire che c’è un angolo, ad esempio l’angolo di una cellula, e poi si vedrà un altro angolo, oppure una sezione di muro, ecc. tutto accade come se lo spazio bressoniano si presentasse, sotto certi aspetti, come una serie di piccoli frammenti la cui connessione non è predeterminata.
Serie di piccoli frammenti, dunque, la cui connessione non è predeterminata: ci sono dei grandissimi cineasti che, al contrario, impiegano… degli spazi d’insieme: non sto affatto dicendo che uno spazio d’insieme sia più facile da maneggiare. Ah, gli spazi… ce ne sono talmente tanti nel cinema! Ma io suppongo che questo sia senza dubbio un tipo di spazio. Tanto che in seguito è stato ripreso da altri che se ne sono serviti in modo creativo, rinnovandolo in rapporto a Bresson; ma io penso che Bresson sia stato uno dei primi a costruire uno spazio per mezzo di piccoli frammenti scollegati, vale a dire dei piccoli frammenti la cui connessione non sia predeterminata. Quando dicevo, ad ogni modo, che al limite di ogni tentativo di creazione ci sono degli spazio-tempi, beh, certo, non c’è altro che questo! È lì che i blocchi di durata-movimento di Bresson tenderanno verso questo tipo di spazio. La risposta viene sola: questi piccoli spezzoni di spazi visivi, la cui connessione non è data in anticipo, attraverso che cosa pensate che siano connessi? Beh, attraverso la mano! (D. mostra la sua mano aperta agli spettatori) Questa non è teoria, non è filosofia, niente di tutto questo. Non è qualcosa che si possa dedurre così, ma io dico questo: che il tipo di spazio di Bresson e la valorizzazione cinematografica della mano sono evidentemente legati. Voglio dire che il raccordo di piccoli pezzi di spazio bressoniano, per il fatto stesso di essere dei pezzi, dei frammenti scollegati di spazio, non può essere che un raccordo manuale. Di qui la funzione esaustiva della mano in tutto il cinema di Bresson... Beh, si potrebbe continuare a lungo, perché attraverso questo percorso il blocco d'estensione-movimento di Bresson riceverebbe dunque, come segno proprio al suo creatore, il carattere di questo spazio particolare, il ruolo della mano che ne scaturisce direttamente... non c'è che la mano a poter effettivamente operare delle connessioni da una parte all'altra dello spazio. Bresson è senza dubbio il più gran cineasta ad aver reintrodotto nel cinema i valori tattili, e non semplicemente perché sa riprendere le mani in modo ammirabile. Anzi, se sari prendere in modo ammirabile le mani è perché ha bisogno delle mani.
Un creatore non è qualcuno che lavora per il piacere. Un creatore non fa che ciò di cui ha assolutamente bisogno.

Storia dell'idiota e dei sette samurai

Avere un'idea al cinema, ancora una volta, non è la stessa cosa che avere un'idea altrove. E pertanto ci sono delle idee, nel cinema, che potrebbero valere anche in altre discipline. Ci sono delle idee nel cinema che potrebbero essere delle eccellenti idee romanzesche, ma non avrebbero affatto lo stesso svolgimento. Inoltre ci sono delle idee nel cinema che non possono essere che cinematografiche. Ciò tuttavia non impedisce, nemmeno quando si tratti di idee cinematografiche che potrebbero avere valore romanzesco, che tali idee siano già inviluppate in un processo cinematografico come vi si fossero votate in anticipo. Ciò che dico è importante, perché è un modo di porre una questione che mi interessa molto: cos'è che fa sì che un cineasta senta il desiderio di adattare, ad esempio, un romanzo?
Mi sembra evidente che, se sente il desiderio di adattare un romanzo, è perché ha delle idee cinematografiche che entrano in risonanza con ciò che il romanzo presenta come idee romanzesche. E che lì a volte, anzi, spesso, si fanno dei grandi incontri. È qualcosa di diverso: non pongo il problema del cineasta che adatta un romanzo notoriamente mediocre. Può avere bisogno del romanzo mediocre e se ne ha bisogno, ciò non esclude che il film possa essere geniale. Sarebbe interessante trattare a fondo il problema, ma vorrei porre ora una questione un po' diversa, cioè quando un romanzo è un grande romanzo; quando si rivela, in altre parole, quella specie di affinità o quando qualcuno ha, nel cinema, un'idea che corrisponde all'idea del romanzo.
Uno dei casi più felici è quello di Kurosawa. Ma perché Kurosawa si trova in una sorta di affinità con Shakespeare e Dostoevskij? Perché ci vuole un giapponese per entrare così in familiarità con Shakespeare e Dostoevskij? Bene, a me sembra – ma è una risposta tra mille altre possibili, che credo tocchi un po' anche la filosofia – che ai personaggi di Dostoevskij (può essere magari un piccolo dettaglio) succedano spesso cose assai curiose.
Generalmente sono molto irrequieti. Un personaggio se ne va, scende in istrada, così tanto per fare e dice: “una persona, la donna che amo, Tania, mi chiama in suo aiuto. Vado, sì, corro, corro... Tania morirà se non vado da lei”. Scende le scale ed incontra un amico, oppure vede un cane che è stato investito e dimentica completamente tutto. Si scorda. Scorda del tutto che Tania lo aspetta, che sta morendo. Incrocia un amico ed inizia a parlare, se ne va con lui a prendere un tè e poi, tutto a un tratto, esclama: “Tania mi aspetta, bisogna che vada”. [risate in sala] Ma cosa significa tutto questo? Beh, in Dostoevskij i personaggi sono presi all'infinito in stati d'urgenza e mentre si trovano in tali stati, che sono questione di vita o di morte, sanno che c'è qualcosa di ancora più urgente, ma non sanno cosa sia ed è questo che li blocca. Tutto succede come nel massimo pericolo – Al fuoco! Al fuoco! – bisogna che me ne vada, mi dicevo; ma poi no, no, c'è qualcosa di più urgente e non mi muoverò di qui finché non saprò cos'è.
Questo è l'idiota. È la formula dell'idiota. “Ah, sapeste... no, no, c'è un problema più profondo – ma qual è? – Non ci vedo chiaro, ma lasciatemi, lasciatemi! Tutto può bruciare, ma solo quando ci saremo arrivati. Bisogna scoprire questo problema più urgente”... Tutto questo Kurosawa non l'ha certo imparato da Dostoevskij; tutti i personaggi di Kurosawa sono così. Io direi: ecco un incontro, un bell'incontro. Se Kurosawa può adattare Dostoevskij è perché può dire almeno: “Ho un problema in comune con lui. Ho un problema in comune, quel problema lì”. I personaggi di Kurosawa si trovano esattamente nella medesima situazione, sono presi in situazioni impossibili: ah, sì, ma attenzione! C'è un problema più urgente e bisogna che io sappia qual è questo problema. Forse Vivere è uno dei film di Kurosawa che va più lontano in questa direzione; ma tutti i suoi film vanno in questa direzione. I sette samurai è un film che mi ha sempre colpito molto, perché tutti gli spazi di Kurosawa dipendono da esso. È giocoforza che sia una sorta di spazio ovale battuto dalla pioggia... ma alla fine poco importa; tutto questo ci porterebbe via troppo tempo. Anche qui ripiomberemmo sul limite del tutto, che è ancora uno spazio-tempo. Ma i sette samurai, vedete, sono presi in una situazione di urgenza estrema. Hanno accettato di difendere il villaggio e, da un capo all'altro, sono lavorati da una questione più profonda. C'è una questione più profonda che attraversa tutto questo. E sarà enunciata alla fine dal comandante dei samurai, quando se ne vanno: che cos'è un samurai? Che cos'è un samurai, ma non in generale, bensì che cos'è un samurai in quell'epoca lì. Forse qualcuno che non è più buono a nulla. I signori non hanno più bisogno di lui e i contadini saranno presto in grado di difendersi da soli. E lungo tutto il film, malgrado l'urgenza della situazione, i samurai sono ossessionati da questa domanda che è degna de L'idiota, che è una domanda idiota: noi samurai, che cosa siamo? Ecco, io direi che un'idea nel cinema è qualcosa del genere. Voi mi direte che no, dato che è allo stesso tempo un'idea romanzesca. Ma un'idea cinematografica è di questo tipo solo dal momento in cui è già assunta in un processo cinematografico; è allora che potrete dire “ho un'idea”, anche se presa a prestito da Dostoevskij.
Direi anche – cerco di farlo velocemente – che un'idea è qualcosa di molto semplice; ripeto, non è un concetto, non è filosofia. Un concetto è un'altra cosa; da ogni idea si può forse tracciare un concetto. Penso a Minnelli. A me sembra che in Minnelli vi sia un'idea straordinaria sul sogno. Si può dire che sia un'idea semplice e che sia strettamente connessa con tutto un processo cinematografico che è l'opera stessa di Minnelli. La grande idea di Minnelli sul sogno, a mio parere, è che il sogno riguardi prima di tutto coloro che non sognano affatto. I sogni di chi sogna riguardano coloro che non sognano, ma perché li riguarda? Perché dal momento in cui vi è un sogno dell'altro, vi è pericolo. Forse i sogni delle persone sono sempre sogni divoranti che rischiano di inghiottirci. E che gli altri sognino, è pericoloso; e che il sogno sia una terribile volontà di potenza; e che ciascuno di noi sia più o meno vittima del sogno dell'altro, anche quando si tratta della fanciulla più graziosa. Anche quando si tratta della fanciulla più graziosa è un divoratore terribile, non per la sua anima, ma per i suoi sogni. Diffidate del sogno dell'altro, perché quando siete presi nel sogno dell'altro, siete fottuti.

Cadavere

Ora vorrei parlarvi, altro esempio, di un'idea propriamente cinematografica: della famosa dissociazione vedere/parlare in un cinema relativamente recente. Anche qui prenderò i casi più noti. Considerate Syberberg, gli Straub, Marguerite Duras: che cos'hanno in comune questi registi, in cosa consiste l'elemento propriamente cinematografico? Questa è un'idea cinematografica: operare una disgiunzione tra il visuale e il sonoro. Perché questo non si può fare nel teatro? O meglio, si può fare, ma allora applicato al teatro – salvo eccezioni e ammesso che il teatro abbia i mezzi per farlo – potremmo dire che il teatro l'ha preso a prestito dal cinema. Il che non è un male, ovviamente, ma si tratta di un'idea talmente cinematografica da assicurare la separazione del vedere e del parlare, del visuale e del sonoro. Questo corrisponderebbe alla domanda: “che cosa significa avere un'idea cinematografica?”. Tutti sanno in cosa consiste, ma lo dirò a mio modo: una voce parla di qualcosa e allo stesso tempo ci si fa vedere un'altra cosa e, alla fine, ciò di cui ci parla è al di sotto di ciò che ci viene mostrato. Questo terzo punto è molto importante. Sentite bene che è lì che il teatro non potrebbe riuscire. Il teatro potrebbe assumere le prime due proposizioni: qualcuno ci parla di qualcosa e ce ne fa vedere un'altra. Ma ciò di cui si parla si mette contemporaneamente al di sotto di ciò che ci viene fatto vedere. Ed è necessario, altrimenti le prime due operazioni non avrebbero alcun senso, alcun interesse. Se preferite, si potrebbe dire in termini più... La parola si leva nell'aria al tempo stesso in cui la terra che vediamo sprofonda sempre più. O piuttosto che nello stesso istante in cui questa parola si eleva nell'aria e ci parla, ciò di cui ci parla sprofonda sotto terra.
Cos'è dunque questo? Se non c'è che il cinema che lo possa fare. Non sto affatto dicendo che lo debba fare – lo avrà fatto sì e no due o tre volte – posso solo dire che coloro i quali hanno avuto questa idea sono dei grandi cineasti. Non si tratta affatto di dire se sia qualcosa da fare oppure No. Bisogna avere delle idee, qualunque siano. Ah, questa è un'idea cinematografica! Io dico che è prodigiosa, perché assicura a livello cinematografico una vera trasformazione degli elementi. Un ciclo di grandi elementi che fa sì che di colpo il cinema faccia eco con... come dire... con una fisica qualitativa degli elementi. Ciò dà luogo ad una specie di trasformazione: l'aria, la terra e l'acqua e il fuoco perché, bisognerebbe aggiungere... non ne abbiamo il tempo, evidentemente, ma scopriremmo il ruolo di altri due elementi, una grande circolazione di elementi nel cinema. In mezzo a tutto questo, per di più, la storia non scompare; la storia è sempre lì, ma ciò che ci interessa capire è che la storia è così interessante proprio perché c’è dietro tutto questo. È proprio questo ciclo, così come l'ho appena definito in modo così rapido: la voce si innalza contemporaneamente a ciò di cui si parla e fugge sulla terra.
Avrete riconosciuto buona parte dei film di Straub, il grande ciclo degli elementi di Straub. Ciò che vediamo è unicamente la terra deserta, ma questa terra deserta è come carica di ciò che vi è sotto. Voi mi direte: “che cosa c'è sotto, cosa ne sappiamo?” Beh, è proprio ciò di cui la voce ci parla. È come se la terra, là, si deformasse a causa di ciò che la voce ci dice e che viene a posarsi sulla terra, a suo tempo e luogo. E se la terra e se la voce ci parlano di cadaveri, è tutto il lignaggio dei cadaveri che viene a prendervi posto, nonostante in quel momento il minimo fremito di vento sulla terra deserta, sullo spazio vuoto sotto i vostri occhi, la più piccola cavità, tutto assuma un senso.

Che cos’è l’atto di creazione?

Vedete bene che avere un'idea, in ogni caso, non è qualcosa dell'ordine della comunicazione. Ed è qui che volevo arrivare, perché ciò riguarda delle domande che mi sono state gentilmente poste. Vorrei spiegare fino a che punto ciò di cui stiamo parlando sia irriducibile ad ogni forma di comunicazione. Niente di grave, ma cosa vuol dire? A me sembra che si potrebbe dire, in prima istanza, che la comunicazione sia trasmissione e propagazione di un'informazione. Ora, che cos'è un'informazione? Non è così complicato, tutti lo sanno: un'informazione è un insieme di parole d'ordine. Quando vi si informa, vi si dice ciò che si suppone dobbiate credere. In altre parole, informare è far circolare una parola d'ordine. Le dichiarazioni della polizia, non a caso, sono dette “comunicati”. Ci viene comunicata un'informazione: vale a dire che ci viene detto ciò che si suppone noi si debba credere, ciò che siamo tenuti a credere. Magari nemmeno a credere, ma di fare come se ci si credesse; non ci viene chiesto di credere: ci viene chiesto di comportarci come se ci credessimo. Questa è l'informazione, la comunicazione e, al di fuori di queste parole d'ordine, della trasmissione di queste parole d'ordine, non c'è comunicazione, non c'è informazione. La logica conclusione è che l'informazione è esattamente il sistema di controllo.
È vero, sto dicendo delle banalità, se non fosse per il fatto che tutto ciò oggi ci riguarda in modo particolare. Ci riguarda, perché stiamo entrando in una società che potremmo definire “società di controllo”. Sapete, un pensatore come Michel Foucault aveva fatto l'analisi di due tipi di società assai prossime alla nostra. Le prime le chiamò “società di sovranità”, le seconde “società disciplinari”. La società disciplinare – e le sue analisi sono rimaste a giusto titolo celebri – si definisce attraverso la costruzione di luoghi di reclusione: prigioni, scuole, laboratori, ospedali. E le società disciplinari avevano bisogno di questo. Ma tutto ciò ha generato non poche ambiguità in certi lettori di Foucault, perché hanno creduto che questo fosse l'ultimo suo pensiero. Evidentemente No. Foucault non ha mai creduto – e l'ha detto molto chiaramente – che le società disciplinari fossero eterne. Anzi, pensava evidentemente che noi si stesse entrando in un nuovo tipo di società. Certo, ci sono residui di società disciplinare di ogni tipo, e ce ne saranno per anni e anni. Ma noi sappiamo già di vivere in società di altro tipo, società che dovremmo chiamare semplicemente – è Borroughs ad aver coniato il termine, e Foucault nutriva una vivissima ammirazione per Borroughs – società di controllo. Entriamo nelle società di controllo, che si definiscono in termini molto diversi rispetto a quelle disciplinari, dal momento in cui non abbiamo più bisogno – o meglio, coloro i quali vegliano sul nostro bene non hanno più bisogno – di luoghi di reclusione.
Voi mi direte che non è affatto evidente, visto tutto quel che sta succedendo oggi; ma non è affatto questo il problema. Si tratterà forse di una cinquantina d'anni, ma già adesso le prigioni, le scuole, gli ospedali sono oggetto permanente di discussione. Non è che per caso sarebbe meglio fornire cure a domicilio? Sì, questo è senza dubbio il futuro. I laboratori, le fabbriche... fanno acqua da tutte le parti; non sarebbe meglio un sistema di subappalti, oppure il lavoro a domicilio? E poi il problema delle prigioni: cosa bisogna fare, cosa bisogna escogitare? Non c'è proprio altro mezzo per punire la gente che metterla in prigione? Sono i vecchi problemi che ritornano, perché, evidentemente, le società di controllo non passeranno più attraverso dei luoghi di reclusione. Anche la scuola; bisogna che anche nella scuola vi sia una sorveglianza sull'insorgere di queste nuove tematiche. Tutto questo si svilupperà nell'arco di quaranta, cinquant'anni, ma vorrei spiegarvi che la cosa straordinaria consisterà nel fare contemporaneamente scuola e professione. Questa sarà una cosa interessante, perché l'identità di scuola e professione nella formazione permanente – che è il nostro avvenire – non implicherà più forzatamente il raggruppamento degli alunni in un luogo di reclusione. Tutto questo si potrà fare in altro modo, si farà per minitel... Infine, tutto quel che volete, ma la cosa stupefacente saranno le forme di controllo. Vedete in cosa un controllo differisce da una disciplina: io direi, ad esempio, di un'autostrada... Costruendo delle autostrade, voi moltiplicate i mezzi di controllo; non sto dicendo affatto che questo sia l'unico scopo dell'autostrada, ma resta il fatto che delle persone possano girare all'infinito senza essere per nulla rinchiuse, in un regime perfettamente controllato. Questo è il nostro avvenire, le società di controllo e non le società disciplinari.
Allora, perché vi racconto tutto questo? Beh, perché l'informazione – supponendo che l'informazione sia esattamente questo – è il sistema di controllo delle parole d'ordine, delle parole d'ordine che hanno corso in una determinata società.
Cos'ha a che fare l'arte con tutto questo? Cos'è che l'opera d'arte... Voi mi direte “ma suvvia, tutto questo non vuol dir nulla”. Allora non parliamo affatto di opera d'arte; parliamo, diciamo almeno che c'è della contro-informazione. Per esempio, ci sono dei paesi nei quali, in condizioni particolarmente dure e crudeli, paesi sotto dittatura, nei quali c'è della contro-informazione. Ai tempi di Hitler, gli ebrei che arrivavano dalla Germania e che furono i primi a dirci dell'esistenza dei campi di sterminio, facevano della contro-informazione. Ciò che bisogna constatare è che, a mio avviso, mai la controinformazione è servita ad alcunché. Nessuna contro-informazione ha mai messo Hitler in difficoltà. No, tranne in un caso, ma in quale? È questo l'importante. La mia sola risposta è: la contro-informazione diventa effettivamente efficace solo dal momento in cui è – e lo è per sua natura – o diviene atto di resistenza. E l'atto di resistenza non è né informazione né contro-informazione. La contro-informazione è efficace solo dal momento in cui diventa atto di resistenza.

Malraux

Qual è il rapporto tra l'opera d'arte e la comunicazione?
Nessuno, nessuno.
L'opera d'arte non è uno strumento di comunicazione. L'opera d'arte non ha nulla a che fare con la comunicazione. L'opera d'arte non contiene, a rigor di termini, la minima informazione. In compenso… in compenso c'è un'affinità fondamentale tra l'opera d'arte e l'atto di resistenza. Allora lì sì, che ha qualcosa a che fare con l'informazione e con la comunicazione, a titolo di atto di resistenza. Ma qual è il rapporto misterioso che intercorre tra un'opera d'arte e un atto di resistenza? Dal momento in cui gli uomini che resistono non hanno né il tempo né talvolta la cultura necessari per avere alcun rapporto con l'arte... non so. Malraux sviluppa un buon concetto filosofico. Malraux dice una cosa molto semplice sull'arte; dice: “È la sola cosa che resiste alla morte”.
Ritorniamo al mio discorso di poco fa, all'inizio, su cosa significhi fare della filosofia; in filosofia si inventano concetti. E io trovo che quella sia la base di un buon concetto filosofico. Riflettete. Cos'è che resiste alla morte? Senza dubbio è sufficiente osservare una statuetta vecchia di tremila anni per rendersi conto che la risposta di Malraux è una risposta piuttosto buona. Allora potremmo dire, un po' meno bene ma dal nostro punto di vista, che l'arte è ciò che resiste; forse non è la sola cosa a resistere, ma è ciò che resiste. Di qui, il rapporto così stretto tra l'atto di resistenza e l'opera d'arte. Nessun atto di resistenza è un'opera d'arte, benché lo sia in un certo qual modo. Nessuna opera d'arte è un atto di resistenza, benché in un certo qual modo lo sia. Ci sarebbe bisogno di un'altra riflessione, una lunga riflessione per... Voglio dire, se mi permettete di ritornare a “che cos'è avere un'idea nel cinema?” o “che cos'è avere un'idea cinematografica?” Quando vi dicevo di prendere il caso, per esempio, degli Straub quando operano questa disgiunzione voce / sonoro nelle condizioni descritte in precedenza.
Ora, qual è questo atto di parola che si eleva nell'aria mentre il suo oggetto passa sotto la terra? Resistenza. Atto di resistenza. E in tutta l'opera di Straub l'atto di parola è un atto di resistenza. Da Mosè all'ultimo Kafka, passando per Bach. Fate uno sforzo di memoria: che cos'è l'atto di parola di Bach? È la sua musica. È la sua musica ad essere atto di resistenza. Ma atto di resistenza contro cosa? Non è un atto di resistenza astratto; è atto di resistenza e di lotta attiva contro la ripartizione del sacro e del profano. E questo atto di resistenza in musica culmina in un grido. Così come c'è un grido di Woyzeck, c'è un grido di Bach: “fuori, fuori, andatevene, non voglio più vedervi!” Questo è l'atto di resistenza. Allora, quando gli Straub valorizzano questo grido, il grido di Bach, o quando valorizzano il grido della vecchia schizofrenica, tutto questo deve rendere conto di una coscienza. A me sembra che l'atto di resistenza abbia due facce: è atto umano ma è anche atto artistico. Solo l'atto di resistenza resiste alla morte, sia sotto forma di un'opera d'arte, sia sotto forma di una lotta tra gli uomini. E in quale rapporto sta questa lotta tra uomini con l'opera d'arte? Il rapporto più stretto e per me più misterioso: esattamente ciò che Paul Klee voleva dire quando diceva: “Sapete, il popolo manca”. Il popolo manca e, al contempo, non manca affatto. Il popolo manca, vuol dire – non è chiaro, non sarà mai chiaro – questa affinità fondamentale tra l'opera d'arte e un popolo che non esiste ancora. Bene, eccoci giunti alla fine... mi sento molto onorato, per la vostra grande gentilezza nell'avermi ascoltato. Vi ringrazio molto.

Traduzione di Giovanni Fazzini